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L’arte della commedia

Cast

  • Autore: Eduardo De Filippo
  • Regia: Marcello Andria
  • Scenografia: Marco Barberis
  • Luci e suoni: Antonio Manconi e Fiorella Regina

Interpreti

  • Oreste Campese: Felice Avella
  • Segretario di prefettura: Leandro Cioffi
  • Prefetto: Ernesto Fava
  • Lucia Petrella (maestra elementare): Anna Maria Fusco Girard
  • Piantone e Farmacista: Andrea Iannone
  • Padre Salvati: Geppino Gentile
  • Quinto Bassetti (medico): Enzo Tota

Sinossi

Il mondo in fondo è un gran palcoscenico e la vita una commedia allegra o triste secondo i casi. Per vivere, gli uomini debbono adattarsi a recitare la commedia e debbono anche fingere di divertirsi
Eduardo De Filippo

Eduardo De Filippo scrive L’Arte della Commedia (“Dialoghi più veri del vero in due tempi”) nel 1964, ma l’idea del lavoro risale a parecchi anni prima. Già nel 1953 in un’intervista a Raul Radice ne descrive la trama, molto vicina a quella della versione definitiva.
E’ questo un testo di teatro in cui si parla di teatro. Non solo perché il protagonista, Oreste Campese, è un attore, o perché attori sono, o potrebbero esserlo, i personaggi che al secondo tempo sfilano davanti al prefetto di una cittadina di provincia per raccontargli le loro strane vicende; ma anche perché il teatro e la sua funzione nella società sono gli argomenti del lungo dialogo fra Campese e il prefetto che costituisce l’intero primo tempo della commedia. E anche nel prologo, che Eduardo pubblicò solo nell’ultima edizione, il protagonista, misurando a larghi passi il cortile della prefettura in attesa di essere ricevuto a colloquio, riflette tra sé su questioni teatrali ed espone i principi di una poetica che è poi anche quella del suo autore.

Quando la commedia andò in scena, l’8 gennaio 1965 al Teatro San Ferdinando di Napoli, alcuni critici tirarono in ballo Pirandello e il suo “teatro nel teatro”. Ma Eduardo raccontò di essersi ispirato a un atto unico di un autore napoletano dell’Ottocento, Giacomo Marulli, intitolato I comici e l’avvocato. In questo atto unico un impresario si rivolge a un amico avvocato, autore teatrale per diletto, per chiedergli di scrivere una commedia per la sua compagnia; e gli propone di mandargli subito gli attori perché possa, dal colloquio con loro, ricavare qualche spunto. Ma l’avvocato non ha tempo di riceverli: deve andare a discutere una causa importante. Il capocomico però insiste e finisce addirittura per scommettere che egli incontrerà i suoi attori prima di recarsi in tribunale; premio della scommessa sarà proprio l’impegno dell’avvocato a scrivere il lavoro. Il capocomico se ne va e nello studio cominciano ad affacciarsi, insistendo per essere ricevuti, diversi personaggi: una giovane innamorata, un soldato, una vivandiera, un poeta, i quali irretiscono l’avvocato in un mare di questioni bislacche impedendogli di andarsene. Naturalmente l’ultimo a fare il suo ingresso nello studio è proprio il capocomico, che viene a esigere il premio della scommessa.

Nell’atto unico di Marulli si prevede che il dubbio sulla identità dei personaggi venuti a chiedere udienza all’avvocato alla fine si chiarisca: quelli che lui ha ricevuto sono attori che si sono fatti passare per clienti e non clienti veri. Il gioco è per altro così ingenuo che l’agnizione finale è più una conferma che una sorpresa.

Ne L’Arte della Commedia invece Eduardo non risolve l’enigma e lascia non solo il prefetto e il suo segretario ma anche il pubblico nel dubbio se coloro che si sono avvicendati davanti all’autorità per esporre le loro singolari storie di vita siano davvero un medico, un prete, una maestra, un farmacista, o siano solo degli attori che si fingono tali. Se dal punto di vista del prefetto è molto importante che l’enigma si risolva (soprattutto quando ha il dubbio di trovarsi di fronte a un suicidio), per il capocomico Campese non è poi così importante appurare se si tratti di realtà o di finzione, dal momento che: “Quando in un dramma teatrale c’è uno che muore per finzione scenica, […] un morto vero in qualche parte del mondo o c’è già stato o ci sarà”.
Scegliendo un finale aperto, che non spiega e non risolve ma lascia in campo tutte le possibili varianti del gioco teatrale, Eduardo invita gli spettatori a considerare il rapporto fra realtà e finzione da una duplice prospettiva: non solo quella di un teatro che guarda alla società e che — come dice Campese — mette “l’occhio al buco della serratura” per riportare sulla scena storie di vita, pezzi di realtà; ma anche quella di una società civile che guarda al teatro considerandolo non un passatempo futile, una realtà marginale, ma uno specchio in cui riflettersi per conoscersi meglio. Per dirla con Campese, più ancora che i fatti, “sono le circostanze che contano”; quelle stesse circostanze che poi producono i singoli fatti concreti. Ed è delle circostanze, non dei fatti, che il teatro deve occuparsi.

Come si vede, a questo punto del suo lavoro Eduardo si è già molto allontanato dalla farsa napoletana da cui ha preso spunto. Le problematiche che tratta sono assai più complesse, anche se il gioco teatrale, nel suo meccanismo, non cambia granché. Allo stesso modo, fin dal primo tempo della commedia, Eduardo autore prende le distanze anche dalle problematiche pirandelliane del “teatro nel teatro”, da quello che Campese chiama “il problema dell’essere e del parere”; e lo fa per bocca del suo personaggio.

Al Prefetto che sprezzantemente, di fronte alla sua minaccia di mandargli gli attori travestiti, lo ha sfidato dicendogli: “Li mandi pure questi “Personaggi in cerca di autore”, troveranno buona accoglienza…”, Campese replica: “Se mi deciderò a mandare i miei attori qua sopra, lo farò allo scopo di stabilire se il teatro svolge una funzione utile al proprio paese o no. Non saranno personaggi in cerca di autore, ma attori in cerca di autorità”.

Non c’è dubbio che, anche se hanno avuto fortuna e destini assai differenti, nella loro “ricerca delle autorità” Eduardo e il suo protagonista si identifichino. Per entrambi del resto questa ricerca non ha dato grandi frutti. In molte interviste e dichiarazioni pubbliche Eduardo espresse il proprio rammarico di fronte alla sordità del potere politico nei confronti del teatro: dei suoi messaggi come dei suoi problemi.

Quando Campese ricorda al Prefetto che nel 1946 nel piano di aiuti economici per la ricostruzione del paese non furono inclusi gli edifici teatrali, dietro le parole del personaggio si possono intravedere le esperienze del suo autore, al quale furono rifiutati finanziamenti e prestiti agevolati per la riedificazione del San Ferdinando, il teatro che aveva acquistato in macerie nel dopoguerra e che dovette ricostruire completamente a sue spese. E quando Campese si domanda se il teatro sia di pubblica utilità o no, di interesse nazionale o no, e prosegue poi mettendo maliziosamente in questione la legittimità di “tutto l’apparato burocratico che lo circonda”, nelle sue parole pare di sentire l’eco delle dichiarazioni polemiche di Eduardo, alla fine degli anni Cinquanta, contro la Direzione Generale del Teatro, accusata di essere un organismo burocratizzato, gestito in modo clientelare e parassitario.
In un certo senso si può dire che nel L’Arte della Commedia usando le proprie risorse di autore e di attore, Eduardo abbia cercato di mettere in scena quel dialogo con le autorità che tante volte gli è mancato nella sua esperienza concreta di teatrante. Indossando i panni di un piccolo capocomico di provincia e riducendo le stesse autorità al ruolo di personaggio, le ha costrette ad ascoltarlo. Ma ancora una volta si tratta di un dialogo fra sordi.

Teatro e potere parlano due linguaggi profondamente diversi. E sugli esiti di questo confronto Eduardo autore non esita a esprimere il proprio pessimismo. Drammaturgicamente però la sordità del Prefetto e le divergenze di opinione fra lui e Campese producono effetti interessanti e fanno sì che il lungo dialogo a due voci che costituisce l’intero primo tempo della commedia, ben lungi dall’apparire statico, poco teatrale, povero di azione — come apparve ad alcuni critici — si presenti invece come una vera e propria battaglia, una battaglia di idee in cui ciascuno combatte nel modo che gli è proprio: il Prefetto con l’arrogante alterigia che spesso si associa al potere, il capocomico con una mitezza e un’acquiescenza apparenti che nascondono in realtà la difesa caparbia delle proprie idee.

All’inizio i due personaggi a confronto, pur profondamente diversi per professione, condizioni, classe, sembrano essere accomunati proprio dal comune interesse per il teatro. Campese è un attore e anche il Prefetto, in gioventù, ha fatto l’attore, ha recitato in compagnie filodrammatiche, ottenendo anche qualche successo in ruoli di primo piano. E’ forse è proprio la speranza di rinverdire il ricordo di quelle lontane esperienze giovanili a convincerlo a dare udienza al piccolo attore venuto a conferire con lui. Man mano che il dialogo procede però ci si accorge che Campese e il Prefetto considerano il teatro in due modi molto diversi, addirittura opposti: per il primo esso rappresenta, allo stesso tempo, un mezzo di sopravvivenza e una missione (per lui le due cose non sono affatto in contraddizione come per tanta cultura del Novecento); per il secondo invece è un passatempo un po’ frivolo, tutt’al più un “fatto di cultura”, nel complesso un fenomeno accessorio di cui si può benissimo fare a meno.
E il confronto si fa ben presto scontro. D’altra parte, che esistano non il teatro ma teatri diversi per pubblici diversi risulta chiaro nel momento in cui Campese spiega al Prefetto il motivo che lo ha spinto a chiedergli aiuto. Lui e i suoi attori non hanno mai avuto bisogno dell’intervento dell’autorità; sono sempre stati autonomi grazie al rapporto di fiducia con un pubblico popolare, composto di “braccianti, contadini, serve, bottegai”, che frequentava abitualmente il loro teatro itinerante, “Il Capannone”, prima che andasse distrutto in un incendio. Il precedente Prefetto ha concesso loro il teatro comunale, così che possano almeno mettere insieme i soldi per il viaggio, ma il loro pubblico “si vergogna di entrare nei teatri dei signori”; né, d’altra parte, ci entrano i signori, poco o nulla interessati agli spettacoli della sua compagnia, alla modestia degli allestimenti, a quel repertorio fatto prevalentemente di classici o di drammi popolari che il prefetto definisce sprezzantemente “la solita zuppa”. Quel che determina la crisi del teatro — dice quest’ultimo — è la mancanza di autori.
Il problema per lui è artistico e culturale. Quel che determina la crisi del teatro — ribatte Campese, che non è d’accordo neppure sull’uso di questo termine vecchio quanto il teatro — è la confusione che ne intralcia l’organizzazione, sono il clientelismo e il ricatto che tarpano la libertà degli autori e ne isteriliscono la fantasia imponendo una autocensura che rende la censura stessa uno strumento inutile; è il rapporto con un potere che, non solo non si accontenta di considerare il teatro come un fatto superfluo, ma se ne serve come merce di scambio. Il problema per lui non è dunque solo artistico e culturale, ma sociale e politico.
Come si vede le questioni che Eduardo solleva con questa commedia, dando voce al capocomico Campese, non un intellettuale ma un piccolo teatrante di poca cultura e di molta esperienza, mantengono anche oggi la loro schiacciante attualità e la manterranno fintanto che esisteranno, da un lato, un potere arrogante e votato solo al mantenimento di se stesso, dall’altro un teatro che guarda alla realtà per aiutare a comprendere, se non a risolvere, le sue troppe contraddizioni.

Paola Quarenghi

NOTE di REGIA

Oreste Campese, un capocomico di vecchia scuola che percorre in lungo e in largo la Penisola con la sua modesta compagnia, portando nelle piazze di provincia l’arte e la tradizione secolare del teatro girovago, a seguito dell’incendio del suo capannone si rivolge al prefetto De Caro, massima autorità locale, per chiedere aiuto. Ne nasce un dialogo dai tratti ironici, ma dal fondo accorato e moralmente rigoroso, sul significato e sulla funzione sociale del teatro e dell’attore, che appare oggi di indubbia attualità. Ciascuno dibatte con l’arma che gli è propria: con toni paternalistici e supponenti il rappresentante delle istituzioni, sordo alle ragioni dell’arte; con apparente mitezza e condiscendenza l’attore, fermo nel difendere le sue posizioni e sorretto dalla sua sobria, ma insidiosa dialettica.

Attorno ai due antagonisti ruotano dei personaggi dalla forte caratterizzazione emblematica – un medico, un prete, una maestra, un farmacista – ciascuno dei quali porta in scena con passione e calore la logica profonda della propria identità, insinuando il dubbio che il confine fra verità e finzione sia così labile da non consentire di distinguere l’una dall’altra. In bilico sul filo sottile che divide l’umanità reale da quella rappresentata sulla scena, raccontano storie così complicate e inquietanti da apparire verosimili, tanto paradossali da poter risultare credibili. Il susseguirsi delle continue ambiguità si risolverà in un finale sospeso, che lascia la porta aperta a tutte le possibili varianti del gioco teatrale.

Benché l’idea del testo fosse già chiaramente definita nei primi anni ’50, Eduardo scrisse L’arte della commedia nel 1964. Di questo vero e proprio manifesto della sua poetica negò sempre le ascendenze pirandelliane, asserendo di essersi ispirato piuttosto alla commedia ottocentesca I comici e l’avvocato di Giacomo Marulli. Innegabile rimane, tuttavia, la connotazione metateatrale del testo. Su questa punta l’obiettivo la regia, che colloca l’azione scenica nello spazio compreso fra due platee – l’una popolata e concreta, l’altra simbolica – alle quali l’attore alternativamente si rivolge: una zona liquida, dunque, un palcoscenico dell’esistenza, dove tutti, anche i personaggi che fanno da contraltare alla compagnia dei comici, alla fine confluiscono, a significare l’inesausto riflettersi della Vita nel Teatro, del Teatro nella Vita. La vetrata che delimita l’ufficio prefettizio – specchio e diaframma fra immagini ribaltate – è, così, incorniciata da una tenda di damasco rosso, che appare anche come un secondo sipario, replica concentrica di quello reale.

L’arte della commedia andò in scena per la prima volta al Teatro San Ferdinando di Napoli l’8 gennaio 1965. A Eduardo – interprete, giocoforza, di Campese – si affiancavano Franco Parenti, Regina Bianchi ed Enzo Petito. Più nota è l’edizione televisiva del 1976, in cui Ferruccio De Ceresa veste i panni del prefetto De Caro e Mario Scaccia quelli del parroco. Per celebrare a suo modo il trentennale della scomparsa del grande drammaturgo e attore napoletano, la Compagnia dell’Eclissi ha scelto di misurarsi con uno dei suoi testi meno noti e rappresentati – riportandolo in scena a cinquant’anni esatti dal debutto – riconoscendovi i tratti di una grande sapienza scenica e di una suggestiva, lungimirante riflessione sul Teatro, sul mestiere dell’attore, sul rapporto fra Arte e Vita.

Marcello Andria

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IL PROMO di Antonella Russoniello

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Il nodo della perpendicolare

Cast

  • Autore: Claudio Grattacaso
  • Regia: Marcello Andria

Interpreti

  • M. Cannaviello
  • Anna Maria Fusco Girard
  • G. Gentile
  • F. Palumbo
  • R. Lombardi
  • E. Tota

Sinossi

A causa dello sciagurato oroscopo di un improbabile astrologo televisivo, Fred, architetto di una ditta privata, e la moglie Ada si trovano a dover fronteggiare una serie di imprevedibili contrarietà, che sconvolgono il loro tranquillo tran-tran. In una serie di equivoci a catena dagli imprevedibili sviluppi, un comune soggiorno borghese diviene così teatro di una serie di stralunati personaggi: dai genitori di lei, Sara e Sam, travolti da una tardiva e tempestosa crisi coniugale, alla giovane Wanda – la svampita che è causa del dissidio – a Walter, logorroico collega di Fred, che, ansioso di portare il suo aiuto, produce effetti letali.

Una esilarante e riuscita variante nostrana della situation comedy, insomma, che, nel rispetto dei  meccanismi che ne regolano la conduzione, ritrae in un unico ambiente episodi di vita quotidiana, traendone spunto per gag e fulminanti scambi di battute. Un umorismo intelligente, mai greve o trasandato nella scrittura, che richiama alla memoria le raffinate commedie televisive dei nostri anni Sessanta.
La regia mira ad assecondare, nel dialogo e nell’azione scenica, il ritmo serrato che caratterizza il testo, scandendolo con frequenti jingles, e, non preoccupandosi di dare credibilità alla vicenda e ai personaggi, li sfiora con ironia e leggerezza sul filo di un’impronta vagamente astratta e irreale.

Claudio Grattacaso è nato nel 1962 a Salerno, dove vive e insegna. È autore di testi teatrali e racconti. Il suo primo romanzo, La linea di fondo (Nutrimenti 2014), è stato segnalato dal comitato di lettura dell’ultima edizione del Premio Italo Calvino.

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Il Piacere dell’Onestà

Cast

  • Autore: Luigi Pirandello
  • Adattamento e Regia: Marcello Andria
  • Costumi e Regia: Angela Guerra
  • Scenografia: Compagnia dell’Eclissi
  • Selezione musicale: Geppino Gentile
  • Musiche di Scena: Franz Schubert e Georges Bizet
  • Arredi di Scena: Leopoldo Di Leo
  • Elaborazione Fotografica: Armando Cerzosimo

Interpreti

  • Fabio Colli: Raul Apicella
  • Signora Maddalena: Anna Maria Fusco Girard
  • Parroco di Santa Marta: Geppino Gentile
  • Maurizio Setti: Roberto Lombardi
  • Agata Renni: Giulia Sonetti
  • Angelo Baldovino: Enzo Tota

Sinossi

Intorno a un tavolo, fulcro al tempo stesso del microcosmo borghese e del consolidato organismo famigliare, si giocano le sorti della giovane Agata, a cui l’amore imprudente dell’avvocato Colli, a sua volta infelicemente coniugato con una donna che non lo ama, ha sottratto l’onore. A soccorrere la pericolante rispettabilità della donna e del marito adultero interviene un amico fidato, Maurizio Setti, il quale procura quel marito di comodo che potrà sposare la ragazza e dare un nome al bambino, evitando lo scandalo e il discredito sociale.

Ma è qui che l’invenzione pirandelliana con il consueto scarto creativo solleva la trama dalla convenzionalità della commedia tardottocentesca. Già, perché il prescelto, un aristocratico decaduto che nasconde un passato oscuro e inconfessabili demeriti, accetta di ricoprire il ruolo solo a patto di imporre regole intransigenti, che non lasciano alcuno spazio a sotterfugi e compromessi. Tormentato dalla vergogna di aver infangato il proprio nome, di aver disceso la scala del degrado fino al limite dell’isolamento sociale, Angelo Baldovino, provando ora un intimo, disinteressato piacere dell’onestà, costringe gli altri a seguirlo, con la logica inoppugnabile della ragione, attraverso l’impervio percorso della sua rappresentazione. Dopo aver sventato i meschini raggiri dei suoi antagonisti, tuttavia, anche Baldovino cadrà vittima all’impatto con la realtà e l’imprevedibilità dell’esistenza, quando la piena ingovernabile dei sentimenti avrà la meglio sulla razionalità astratta, quando la vita, che si era preclusa, prenderà il sopravvento sulla pur gratificante finzione. Recupererà così, quasi a tempo scaduto, la sua dignità di uomo accanto alla donna che ha sposato solo per ossequio alla norma ipocrita e perbenista. Amicizia, e tenerezza, e stima, se non vero e proprio amore, sono ora in grado di sottrarlo all’avvilente solitudine in cui era precipitato, reintegrandolo in un nucleo di affetti. Un finale non del tutto inatteso, che si preannuncia in fondo fin dal primo, obliquo incontro fra i due, quando Agata, nascosta da un paravento, scruta e forse già sceglieBaldovino, apprezzandone la profonda e più autentica moralità. Anch’ella, del resto, distaccandosi dalle regole di un mondo che avverte man mano più estraneo, intraprende un cammino, tutto femminile, che da amante la trasforma prima in madre, poi in moglie.

L’adattamento del testo ha mirato all’essenzializzazione della vicenda e del dettato pirandelliano – scontornati e come relegati in uno spazio allusivo e appena definito – serrando la trama in tre movimenti scanditi dal buio tecnico; e individuando sul fondo della scena un luogo appartato, velato da un diaframma, dove i personaggi si incontrano, riflettono, osservano, quasi sospesi per qualche attimo dalla necessità dell’azione.

Scritta espressamente per le raffinate qualità espressive di Ruggero Ruggeri, che la rappresentò a più riprese, Il piacere dell’onestà debuttò con successo al Teatro Carignano di Torino il 27 novembre 1917, con Vera Vergani nella parte di Agata. A riproporla sulle scene italiane nel secondo dopoguerra furono Luigi Cimara, Salvo Randone (che ne fu per anni memorabile interprete), Alberto Lionello, Gianrico Tedeschi, Ugo Pagliai, Giuseppe Pambieri e, da ultimo, Leo Gullotta. (M. A.)

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Premi & Riconoscimenti

  • 19° Festival Internazionale “Castello di Gorizia 2009” dove ha vinto i Premi assegnati al
    1) Migliore Attore Protagonista (Enzo Tota)
    2) alla Migliore Attrice non Protagonista (Anna MariaFusco Girard) e
    3) il secondo posto assoluto sia nel Giudizio della Giuria che in quello del Pubblico.

  • 41° Festival Macerata Teatro 2009 dove ha vinto
    1) il Premio del Pubblico.

  • 29° “Sipario d’oro 2010” di Rovereto dove
    1) ha vinto il Festival,
    2) il Gradimento del Pubblico,
    3) la Regia (Marcello Andria) e
    4) il migliore attore non protagonista (Roberto Lombardi).
    Nomination per l’attore protagonista (Enzo Tota).

  • 10° Festival “Grifo d’Argento 2010” di Acquaviva di Montepulciano – Teatro dei Concordi
    1) ha vinto il Festival,
    2) l’Allestimento,
    3) la regia (Marcello Andria),
    4) il Migliore Attore Protagonista (Enzo Tota),
    5) il Migliore Attore non Protagonista (Roberto Lombardi).

  • Il Mascherone – Si alzi il sipario di Bolzano 2010 dove
    1) ha vinto il Festival e
    2) il migliore attore   protagonista (Enzo Tota).

  • 2° Festival “Di Scena a Fasano 2010” dove ha vinto
    il Premio assegnato al Migliore Attore Protagonista (Enzo Tota).

  • 15.a Edizione “Teatro in Sala 2011” di Sala Consilina (SA) dove ha vinto
    1) il Premio assegnato dagli Spettatori e
    2) il Premioper la Migliore Scenografia.

  • 64° Festival Nazionale d’Arte Drammatica 2011 di Pesaro dove ha vinto il
    1) 2° premio assoluto.
    2) Roberto Lombardi riceve una menzione speciale come migliore attore non protagonista.
    Lo spettacolo riceve anche sei nomination: scenografia, commento musicale (Geppino Gentile), valenza etica, gradimento del pubblico, attore protagonista (Enzo Tota), regia (Marcello Andria).

  • 3° Festival Nazionale di Teatro Amatoriale “L’Ora del Teatro 2011” di Montecarlo (LU) dove
    1) ha vinto il Festival e
    2) il Premio dei Giovani.
    Nomination per la regia (Marcello Andria), per l’Attore Protagonista (Enzo Tota), il caratterista (Geppino Gentile), l’Attore Non Protagonista (Roberto Lombardi) e l’Attrice Non Protagonista (Anna Maria Fusco Girard).

  • 7° Festival Nazionale d’Arte Drammatica 2011 di Imperia dove ha vinto il
    1) Premio per il Migliore Attore Protagonista (Enzo Tota).
    Secondo classificato nel Gradimento del Pubblico.

  • Rassegna Mario Scarpetta 2011/2012 di Pagani dove ha vinto il
    1) Premio per il Migliore Attore Protagonista (Enzo Tota).

  • Rassegna AmatTori Insieme 2011/2012 di Gravina in Puglia doveha vinto il
    1) Premio per il Migliore Attore Protagonista (Enzo Tota).

  • 6° Festival Nazionale Camminando attraverso la voce di Milano dove ha vinto il
    1) Premio della Critica.
    2) Premio del Pubblico.
    3) Premio per il Migliore Attore Protagonista (Enzo Tota).
    4) Menzione speciale per Geppino Gentile.

Prima della PRIMA di Antonella Russoniello

Recensioni

Non è facile arrivare al Teatro 99 posti. Non è facile trovare qualcuno che dia indicazioni o conosca l’esistenza del teatro. Ma una volta arrivati la magia si realizza da sé e ci accoglie uno spazio in cui si sente l’amore per il teatro, la forza delle idee, la gioia di creare e offrire il prodotto del lavoro proprio e altrui. Spazio intimo, raccolto, ma non per questo minimale o povero. C’è tutto. Soprattutto c’è il teatro, la capacità di sospendere l’incredulità e far nascere il mondo da un pugno di arredi, luci, suoni, voci, corpi, anime.

Al centro della scena un tavolo rotondo di legno. Tre sedie, rivestite di raso a righe, sono disposte come ai tre vertici di un triangolo. A fare da sfondo, al centro, un pannello rettangolare, a monocromo rosso, a mimare forse un arazzo, o un paravento, con cavalli alati rampanti ai lati di una sorta di monogramma, fulcro di una composizione vegetale di gusto tra il liberty e il cinesizzante. Il resto dello spazio è delineato da un drappo cremisi, che fa da sfondo e quinta.
Banale la storia, da romanzetto d’appendice: lui, l’Avvocato Fabio Colli (Raul Apicella), separato da una donna che gli ha fatto torto, ha ingravidato Agata Renni (Giulia Sonetti), ragazza non più così giovane (26 anni…); per riparare allo scandalo il cugino di lui, Maurizio Setti (Roberto Lombardi), con l’approvazione della madre di lei (Anna Maria Fusco Girardi), propone di far sposare la ragazza ad un suo vecchio compagno di collegio, Angelo Baldovino (Enzo Tota), in modo da salvare le apparenze e dare un padre al bambino.

Banale storia, come tante, ma Pirandello utilizza il plot come punto di partenza per mettere a nudo, una volta di più, le maschere che ciascuno di noi indossa, in società e nei rapporti interpersonali. Qui ognuno mente, a se stesso e agli altri. Setti è untuoso e perbene, con i suoi abiti eleganti, con il cappello e la canna da passeggio, che poggia con disinvoltura sul tavolo, con la disinvoltura della persona di famiglia; decoro e opportunità potrebbero essere i suoi motti, infatti invita tutti alla moderazione: “C’è bisogno che il sentimento si contenga”. La madre di Agata è sobriamente elegante con il suo abito a fiori e la lunga collana di perle; anche lei una paladina del decoro, straziata tra il desiderio di gioia per la figlia (“a guardia di un delitto che tutta la natura consiglia”) e la necessità di salvare le apparenze. Non è importante la sostanza, ma la forma: “Fidavo che Fabio fosse più prudente”, se solo fosse stato più prudente, se solo, come si direbbe a Napoli, non avesse fatto il guaio, allora lei avrebbe continuato a chiudere gli occhi, a far finta di non vedere, “per non concedere apertamente, si finge di non vedere”.

Fabio è giovane, innamorato, inconsistente, ignorante, desidera Agata e la desidera soprattutto perché è sua, brama che ritorni ad essere sua. E Angelo Baldovino? non è un uomo onesto, lo dice lui stesso: la bestia, la fallacia umana, sono nel suo animo e nelle sue azioni non meno e forse più che in altri. Forma e sostanza, la forma in lui diventa la sostanza, l’essere stato scelto per rappresentare la parte del marito e del padre fa sì che quella maschera diventi reale, quasi più reale della persona, quella maschera diventa un abito e una camicia di Nesso, un dover essere da cui non si sfugge, anche a costo di far soffrire gli altri, anche a costo di soffrire. Dover essere. La problematica essere/apparire/dover essere è un tema ricorrente, insieme a quello realtà/finzione/apparenza. Proporzioni i cui termini sono ambiguamente interscambiabili, l’uno trascolorante nell’altro, l’uno diverso dall’altro, eppure in qualche modo tangenti.

Tutti in questo dramma devono essere qualcosa, tutti devono volere qualcosa, tutti devono accordare il loro essere e il loro volere, o almeno crederci, finché le due cose non coincidano. “Bisogna che voglia!”, afferma perentoriamente la signora Maddalena, la madre della ragazza. Agata deve volere questo matrimonio riparatore, non c’è altra strada. E deve volerlo anche Fabio Colli, che è un uomo, potrebbe ridersene dello scandalo e soprattutto, è separato da una moglie che gli ha fatto torto, avrebbe tutto il diritto, per la società, di trovare consolazione nell’amore di una ragazza. Tutto in nome del decoro. Squallido balletto di finzioni in nome del quale non importa la realtà, non importa la virtù, ma solo la sua apparenza, la sua recita, un’apoteosi del teatro come norma di vita. Perché senza il decoro, senza le apparenze, senza la sottile ipocrisia del vivere civile, “non resta altro che allargare le braccia, chiudere gli occhi e lasciare entrare la vergogna”.
Solo chi l’ha fatta entrare la vergogna, Angelo Baldovino, l’uomo abietto, l’uomo scivolato nell’abisso, può prescindere da questa rappresentazione, ma solo per entrarvi con maggiore consapevolezza e convinzione, caricato quasi del ruolo di deus ex machina. Lui, che doveva essere la pedina, il prestanome, il marito di comodo da allontanare con un pretesto appena possibile, si trova a dettare nuove leggi, a distribuire nuove parti di un nuovo copione, in cui al decoro si sostituisce la virtù, al volere si sostituisce il dovere, quasi un kantiano imperativo morale in cui essere e dover essere si fondono. A furia di crederci la finzione diventa realtà e chi potrebbe dimostrarci che la realtà sia più reale di una ben orchestrata finzione?

A cura di: Caterina Serena Martucci
www.ilpickwick.it

 

Un tram chiamato desiderio

Cast

  • Autore: Tennessee Williams
  • Adattamento e Regia: Marcello Andria

Interpreti

  • Mitch: Leandro Cioffi
  • Eunice: Lea Di Napoli
  • Stella: Marianna Esposito
  • Stanley: Ernesto Fava
  • Dottore: Geppino Gentile
  • Steve: Andrea Iannone
  • Blanche: Flavia Palumbo

Sinossi

Creatura fragile e inadeguata, che si tiene aggrappata alla vita mediante gli esili fili del sogno e della finzione, Blanche ha un passato inconfessabile, segnato da un trauma che ha lacerato in modo irreparabile l’illusione giovanile di un amore poetico e puro. Relitto di una famiglia (se non di un’intera classe) in declino, si vede costretta a cedere l’austera dimora degli avi, dove ha conosciuto i fasti del prestigio e del benessere, e trova rifugio nell’alcol e in rapporti occasionali, divenendo oggetto di derisione e ostracismo sociale.
Sola e sconfitta, fugge disperata da quel mondo sordido, per raggiungere la sorella Stella, la quale, lasciandosi alle spalle la casa in rovina, si è rifatta un’esistenza in un’altra città con un immigrato, Stanley, uomo ruvido, inquieto, dall’esplicita e aggressiva virilità. Quando l’azione scenica ha inizio, Blanche irrompe nel microcosmo – fortemente radicato in una elementare ma vitale quotidianità – che ruota intorno alla giovane coppia. Presenza spuria e malgradita, genera malumori in particolare nel cognato, che da subito riconosce in lei e nell’instabilità della sua psiche turbata una seria insidia per la quiete domestica. Tramontata anche la possibilità di un’unione con l’ingenuo Mitch, vecchio amico di Stanley che si è lasciato abbagliare dal fascino effimero del suo rango superiore, Blanche subirà dapprima l’oltraggio estremo della violenza carnale, per essere poi espulsa come un corpo estraneo dalla piccola comunità, dove invano ha cercato riparo, e terminare la sua corsa affannosa in una casa di cura.

Dramma di grondante emotività, sempre sospeso sul filo di una tensione e di un furore al confine con l’allucinazione, la pièce punta sul contrasto fra due anime inconciliabili, espressione di ceti, mentalità, impulsi antitetici: l’una aristocratica per nascita e cultura, rappresentata nel momento desolante del tramonto; l’altra, in piena ascesa, concreta e avida di nuovi traguardi. Idealista e raffinata l’una, ma devastata dalla malattia del vivere; sana e rapace l’altra, orgogliosa del proprio vigore. Un conflitto riguardato attraverso la lente deformante di un coccio di vetro, sul cui fondo si deposita il residuo oscuro dell’esistenza e del sogno, del peccato e del senso di colpa: un ‘fondo di bottiglia’ che rimanda i bagliori illusori dell’apparenza e insieme offre un approdo, dolce e inebriante, all’umanità alla deriva.

Recidendo i legami con un preciso contesto ambientale, l’adattamento punta ad essenzializzare la vicenda e il linguaggio, componendoli in una trama intimistica di impronta europea, e mirando dritto all’interiorità dei personaggi. La vetrata che descrive il perimetro dell’azione scenica lascia appena trasparire un esterno più simbolico che reale: lo spazio indefinito che Stanley e i suoi amici dominano, l’altrove che Blanche teme e nel quale metaforicamente prima si perde poi scompare.

Un tram che si chiama Desiderio (A Streetcar named Desire) andò in scena al termine di una lunga elaborazione. Tennessee Williams aveva cominciato a lavorarvi nel 1944, prendendo spunto dalla triste vicenda della sorella Rose, ma soltanto nei primi mesi del ’47 propose il dramma ad Elia Kazan, che ne curò un applauditissimo allestimento teatrale a Broadway con Jessica Tandy, Marlon Brando, Kim Hunter e Karl Malden; poi, nel 1951, una ancor più fortunata versione cinematografica (con Vivien Leigh al posto della Tandy), vincitrice di quattro Oscar. Memorabile la prima italiana del Tram, il 21 gennaio del 1949 al Teatro Eliseo di Roma, alla presenza dell’autore, per la regia di Luchino Visconti e la scenografia di Zeffirelli, in cui Rina Morelli, strepitosa interprete di Blanche, fu affiancata da Vittorio Gassman, Vivi Gioi e Marcello Mastroianni. (M. A.)

Galleria Fotografica

Premi & Riconoscimenti

  • 20° Festival Internazionale “Castello di Gorizia 2010” dove ha vinto i Premi assegnati:
    1) Migliore Attrice Protagonista (Flavia Palumbo),
    2) il Premio Speciale Terzo Teatro,
    3) il terzo posto assoluto nel Giudizio della Giuria e il secondo in quello del Pubblico.

  • 42° Festival Macerata Teatro 2010 dove ha vinto:
    1) Il Premio del Pubblico. Nomination per l’attrice protagonista (Flavia Palumbo e Marianna Esposito)

  • 30° Sipario d’Oro 2011 di Rovereto dove ha vinto:
    1) Premio assegnato alla Migliore Attrice Protagonista (Flavia Palumbo e Marianna Esposito) e
    2) Premio per il Migliore Attore Protagonista (Ernesto Fava).
    Nomination per la regia (Marcello Andria) e per il Migliore Spettacolo.

  • 3° Festival Nazionale di Teatro “Di Scena a Fasano” 2011 dove ha vinto:
    1) Il Festival,
    2) Il gradimento del pubblico
    3) La migliore attrice Protagonista (Flavia Palumbo) e
    4) La regia (Marcello Andria).

IL VIDEO di Maurizio Picariello

Prima della PRIMA di Antonella Russoniello

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