Cast

  • Autore: Eduardo De Filippo
  • Regia: Marcello Andria
  • Scenografia: Marco Barberis
  • Luci e suoni: Antonio Manconi e Fiorella Regina

Interpreti

  • Oreste Campese: Felice Avella
  • Segretario di prefettura: Leandro Cioffi
  • Prefetto: Ernesto Fava
  • Lucia Petrella (maestra elementare): Anna Maria Fusco Girard
  • Piantone e Farmacista: Andrea Iannone
  • Padre Salvati: Geppino Gentile
  • Quinto Bassetti (medico): Enzo Tota

Sinossi

Il mondo in fondo è un gran palcoscenico e la vita una commedia allegra o triste secondo i casi. Per vivere, gli uomini debbono adattarsi a recitare la commedia e debbono anche fingere di divertirsi
Eduardo De Filippo

Eduardo De Filippo scrive L’Arte della Commedia (“Dialoghi più veri del vero in due tempi”) nel 1964, ma l’idea del lavoro risale a parecchi anni prima. Già nel 1953 in un’intervista a Raul Radice ne descrive la trama, molto vicina a quella della versione definitiva.
E’ questo un testo di teatro in cui si parla di teatro. Non solo perché il protagonista, Oreste Campese, è un attore, o perché attori sono, o potrebbero esserlo, i personaggi che al secondo tempo sfilano davanti al prefetto di una cittadina di provincia per raccontargli le loro strane vicende; ma anche perché il teatro e la sua funzione nella società sono gli argomenti del lungo dialogo fra Campese e il prefetto che costituisce l’intero primo tempo della commedia. E anche nel prologo, che Eduardo pubblicò solo nell’ultima edizione, il protagonista, misurando a larghi passi il cortile della prefettura in attesa di essere ricevuto a colloquio, riflette tra sé su questioni teatrali ed espone i principi di una poetica che è poi anche quella del suo autore.

Quando la commedia andò in scena, l’8 gennaio 1965 al Teatro San Ferdinando di Napoli, alcuni critici tirarono in ballo Pirandello e il suo “teatro nel teatro”. Ma Eduardo raccontò di essersi ispirato a un atto unico di un autore napoletano dell’Ottocento, Giacomo Marulli, intitolato I comici e l’avvocato. In questo atto unico un impresario si rivolge a un amico avvocato, autore teatrale per diletto, per chiedergli di scrivere una commedia per la sua compagnia; e gli propone di mandargli subito gli attori perché possa, dal colloquio con loro, ricavare qualche spunto. Ma l’avvocato non ha tempo di riceverli: deve andare a discutere una causa importante. Il capocomico però insiste e finisce addirittura per scommettere che egli incontrerà i suoi attori prima di recarsi in tribunale; premio della scommessa sarà proprio l’impegno dell’avvocato a scrivere il lavoro. Il capocomico se ne va e nello studio cominciano ad affacciarsi, insistendo per essere ricevuti, diversi personaggi: una giovane innamorata, un soldato, una vivandiera, un poeta, i quali irretiscono l’avvocato in un mare di questioni bislacche impedendogli di andarsene. Naturalmente l’ultimo a fare il suo ingresso nello studio è proprio il capocomico, che viene a esigere il premio della scommessa.

Nell’atto unico di Marulli si prevede che il dubbio sulla identità dei personaggi venuti a chiedere udienza all’avvocato alla fine si chiarisca: quelli che lui ha ricevuto sono attori che si sono fatti passare per clienti e non clienti veri. Il gioco è per altro così ingenuo che l’agnizione finale è più una conferma che una sorpresa.

Ne L’Arte della Commedia invece Eduardo non risolve l’enigma e lascia non solo il prefetto e il suo segretario ma anche il pubblico nel dubbio se coloro che si sono avvicendati davanti all’autorità per esporre le loro singolari storie di vita siano davvero un medico, un prete, una maestra, un farmacista, o siano solo degli attori che si fingono tali. Se dal punto di vista del prefetto è molto importante che l’enigma si risolva (soprattutto quando ha il dubbio di trovarsi di fronte a un suicidio), per il capocomico Campese non è poi così importante appurare se si tratti di realtà o di finzione, dal momento che: “Quando in un dramma teatrale c’è uno che muore per finzione scenica, […] un morto vero in qualche parte del mondo o c’è già stato o ci sarà”.
Scegliendo un finale aperto, che non spiega e non risolve ma lascia in campo tutte le possibili varianti del gioco teatrale, Eduardo invita gli spettatori a considerare il rapporto fra realtà e finzione da una duplice prospettiva: non solo quella di un teatro che guarda alla società e che — come dice Campese — mette “l’occhio al buco della serratura” per riportare sulla scena storie di vita, pezzi di realtà; ma anche quella di una società civile che guarda al teatro considerandolo non un passatempo futile, una realtà marginale, ma uno specchio in cui riflettersi per conoscersi meglio. Per dirla con Campese, più ancora che i fatti, “sono le circostanze che contano”; quelle stesse circostanze che poi producono i singoli fatti concreti. Ed è delle circostanze, non dei fatti, che il teatro deve occuparsi.

Come si vede, a questo punto del suo lavoro Eduardo si è già molto allontanato dalla farsa napoletana da cui ha preso spunto. Le problematiche che tratta sono assai più complesse, anche se il gioco teatrale, nel suo meccanismo, non cambia granché. Allo stesso modo, fin dal primo tempo della commedia, Eduardo autore prende le distanze anche dalle problematiche pirandelliane del “teatro nel teatro”, da quello che Campese chiama “il problema dell’essere e del parere”; e lo fa per bocca del suo personaggio.

Al Prefetto che sprezzantemente, di fronte alla sua minaccia di mandargli gli attori travestiti, lo ha sfidato dicendogli: “Li mandi pure questi “Personaggi in cerca di autore”, troveranno buona accoglienza…”, Campese replica: “Se mi deciderò a mandare i miei attori qua sopra, lo farò allo scopo di stabilire se il teatro svolge una funzione utile al proprio paese o no. Non saranno personaggi in cerca di autore, ma attori in cerca di autorità”.

Non c’è dubbio che, anche se hanno avuto fortuna e destini assai differenti, nella loro “ricerca delle autorità” Eduardo e il suo protagonista si identifichino. Per entrambi del resto questa ricerca non ha dato grandi frutti. In molte interviste e dichiarazioni pubbliche Eduardo espresse il proprio rammarico di fronte alla sordità del potere politico nei confronti del teatro: dei suoi messaggi come dei suoi problemi.

Quando Campese ricorda al Prefetto che nel 1946 nel piano di aiuti economici per la ricostruzione del paese non furono inclusi gli edifici teatrali, dietro le parole del personaggio si possono intravedere le esperienze del suo autore, al quale furono rifiutati finanziamenti e prestiti agevolati per la riedificazione del San Ferdinando, il teatro che aveva acquistato in macerie nel dopoguerra e che dovette ricostruire completamente a sue spese. E quando Campese si domanda se il teatro sia di pubblica utilità o no, di interesse nazionale o no, e prosegue poi mettendo maliziosamente in questione la legittimità di “tutto l’apparato burocratico che lo circonda”, nelle sue parole pare di sentire l’eco delle dichiarazioni polemiche di Eduardo, alla fine degli anni Cinquanta, contro la Direzione Generale del Teatro, accusata di essere un organismo burocratizzato, gestito in modo clientelare e parassitario.
In un certo senso si può dire che nel L’Arte della Commedia usando le proprie risorse di autore e di attore, Eduardo abbia cercato di mettere in scena quel dialogo con le autorità che tante volte gli è mancato nella sua esperienza concreta di teatrante. Indossando i panni di un piccolo capocomico di provincia e riducendo le stesse autorità al ruolo di personaggio, le ha costrette ad ascoltarlo. Ma ancora una volta si tratta di un dialogo fra sordi.

Teatro e potere parlano due linguaggi profondamente diversi. E sugli esiti di questo confronto Eduardo autore non esita a esprimere il proprio pessimismo. Drammaturgicamente però la sordità del Prefetto e le divergenze di opinione fra lui e Campese producono effetti interessanti e fanno sì che il lungo dialogo a due voci che costituisce l’intero primo tempo della commedia, ben lungi dall’apparire statico, poco teatrale, povero di azione — come apparve ad alcuni critici — si presenti invece come una vera e propria battaglia, una battaglia di idee in cui ciascuno combatte nel modo che gli è proprio: il Prefetto con l’arrogante alterigia che spesso si associa al potere, il capocomico con una mitezza e un’acquiescenza apparenti che nascondono in realtà la difesa caparbia delle proprie idee.

All’inizio i due personaggi a confronto, pur profondamente diversi per professione, condizioni, classe, sembrano essere accomunati proprio dal comune interesse per il teatro. Campese è un attore e anche il Prefetto, in gioventù, ha fatto l’attore, ha recitato in compagnie filodrammatiche, ottenendo anche qualche successo in ruoli di primo piano. E’ forse è proprio la speranza di rinverdire il ricordo di quelle lontane esperienze giovanili a convincerlo a dare udienza al piccolo attore venuto a conferire con lui. Man mano che il dialogo procede però ci si accorge che Campese e il Prefetto considerano il teatro in due modi molto diversi, addirittura opposti: per il primo esso rappresenta, allo stesso tempo, un mezzo di sopravvivenza e una missione (per lui le due cose non sono affatto in contraddizione come per tanta cultura del Novecento); per il secondo invece è un passatempo un po’ frivolo, tutt’al più un “fatto di cultura”, nel complesso un fenomeno accessorio di cui si può benissimo fare a meno.
E il confronto si fa ben presto scontro. D’altra parte, che esistano non il teatro ma teatri diversi per pubblici diversi risulta chiaro nel momento in cui Campese spiega al Prefetto il motivo che lo ha spinto a chiedergli aiuto. Lui e i suoi attori non hanno mai avuto bisogno dell’intervento dell’autorità; sono sempre stati autonomi grazie al rapporto di fiducia con un pubblico popolare, composto di “braccianti, contadini, serve, bottegai”, che frequentava abitualmente il loro teatro itinerante, “Il Capannone”, prima che andasse distrutto in un incendio. Il precedente Prefetto ha concesso loro il teatro comunale, così che possano almeno mettere insieme i soldi per il viaggio, ma il loro pubblico “si vergogna di entrare nei teatri dei signori”; né, d’altra parte, ci entrano i signori, poco o nulla interessati agli spettacoli della sua compagnia, alla modestia degli allestimenti, a quel repertorio fatto prevalentemente di classici o di drammi popolari che il prefetto definisce sprezzantemente “la solita zuppa”. Quel che determina la crisi del teatro — dice quest’ultimo — è la mancanza di autori.
Il problema per lui è artistico e culturale. Quel che determina la crisi del teatro — ribatte Campese, che non è d’accordo neppure sull’uso di questo termine vecchio quanto il teatro — è la confusione che ne intralcia l’organizzazione, sono il clientelismo e il ricatto che tarpano la libertà degli autori e ne isteriliscono la fantasia imponendo una autocensura che rende la censura stessa uno strumento inutile; è il rapporto con un potere che, non solo non si accontenta di considerare il teatro come un fatto superfluo, ma se ne serve come merce di scambio. Il problema per lui non è dunque solo artistico e culturale, ma sociale e politico.
Come si vede le questioni che Eduardo solleva con questa commedia, dando voce al capocomico Campese, non un intellettuale ma un piccolo teatrante di poca cultura e di molta esperienza, mantengono anche oggi la loro schiacciante attualità e la manterranno fintanto che esisteranno, da un lato, un potere arrogante e votato solo al mantenimento di se stesso, dall’altro un teatro che guarda alla realtà per aiutare a comprendere, se non a risolvere, le sue troppe contraddizioni.

Paola Quarenghi

NOTE di REGIA

Oreste Campese, un capocomico di vecchia scuola che percorre in lungo e in largo la Penisola con la sua modesta compagnia, portando nelle piazze di provincia l’arte e la tradizione secolare del teatro girovago, a seguito dell’incendio del suo capannone si rivolge al prefetto De Caro, massima autorità locale, per chiedere aiuto. Ne nasce un dialogo dai tratti ironici, ma dal fondo accorato e moralmente rigoroso, sul significato e sulla funzione sociale del teatro e dell’attore, che appare oggi di indubbia attualità. Ciascuno dibatte con l’arma che gli è propria: con toni paternalistici e supponenti il rappresentante delle istituzioni, sordo alle ragioni dell’arte; con apparente mitezza e condiscendenza l’attore, fermo nel difendere le sue posizioni e sorretto dalla sua sobria, ma insidiosa dialettica.

Attorno ai due antagonisti ruotano dei personaggi dalla forte caratterizzazione emblematica – un medico, un prete, una maestra, un farmacista – ciascuno dei quali porta in scena con passione e calore la logica profonda della propria identità, insinuando il dubbio che il confine fra verità e finzione sia così labile da non consentire di distinguere l’una dall’altra. In bilico sul filo sottile che divide l’umanità reale da quella rappresentata sulla scena, raccontano storie così complicate e inquietanti da apparire verosimili, tanto paradossali da poter risultare credibili. Il susseguirsi delle continue ambiguità si risolverà in un finale sospeso, che lascia la porta aperta a tutte le possibili varianti del gioco teatrale.

Benché l’idea del testo fosse già chiaramente definita nei primi anni ’50, Eduardo scrisse L’arte della commedia nel 1964. Di questo vero e proprio manifesto della sua poetica negò sempre le ascendenze pirandelliane, asserendo di essersi ispirato piuttosto alla commedia ottocentesca I comici e l’avvocato di Giacomo Marulli. Innegabile rimane, tuttavia, la connotazione metateatrale del testo. Su questa punta l’obiettivo la regia, che colloca l’azione scenica nello spazio compreso fra due platee – l’una popolata e concreta, l’altra simbolica – alle quali l’attore alternativamente si rivolge: una zona liquida, dunque, un palcoscenico dell’esistenza, dove tutti, anche i personaggi che fanno da contraltare alla compagnia dei comici, alla fine confluiscono, a significare l’inesausto riflettersi della Vita nel Teatro, del Teatro nella Vita. La vetrata che delimita l’ufficio prefettizio – specchio e diaframma fra immagini ribaltate – è, così, incorniciata da una tenda di damasco rosso, che appare anche come un secondo sipario, replica concentrica di quello reale.

L’arte della commedia andò in scena per la prima volta al Teatro San Ferdinando di Napoli l’8 gennaio 1965. A Eduardo – interprete, giocoforza, di Campese – si affiancavano Franco Parenti, Regina Bianchi ed Enzo Petito. Più nota è l’edizione televisiva del 1976, in cui Ferruccio De Ceresa veste i panni del prefetto De Caro e Mario Scaccia quelli del parroco. Per celebrare a suo modo il trentennale della scomparsa del grande drammaturgo e attore napoletano, la Compagnia dell’Eclissi ha scelto di misurarsi con uno dei suoi testi meno noti e rappresentati – riportandolo in scena a cinquant’anni esatti dal debutto – riconoscendovi i tratti di una grande sapienza scenica e di una suggestiva, lungimirante riflessione sul Teatro, sul mestiere dell’attore, sul rapporto fra Arte e Vita.

Marcello Andria

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IL TRAILER

IL PROMO di Antonella Russoniello

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