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Cast
- Regia, Drammaturgia, Costumi e Scene: Luigi Imperato e Silvana Pirone
- Scenografie: Monica Castigliola
- Disegno Luci: Paco Summonte
Interpreti
- Vincenza: Chiara Amalberti
- Eloisa: Chiara Giribaldi
- Marga: Giorgia Brusco
- Rina: Federica Spanò
Sinossi
“Pascalina Di Gesù coniugata Colantuono. Faccio due attività.
Una piena di cazzimma, l’altra caritatevole verso me e verso l’anima che mi chiama.”
Due donne si raccontano. Una figlia scrive una lunga lettera per annunciare la propria morte suicida. Torna sulla sua storia, una storia di vita repressa.
“Cara mammà, quando ero piccirella ero la prima della classe, ma mi sono dovuto scordare tutto. Non me lo ricordo più come si scrive, tengo una parlata sporca, che sa di sfaccimma. Parlo senza grammatica, come la mia vita. La lingua è fatta di regole, è un’invenzione. Io conosco cose concrete, dove le regole se esistono sono poche e le ha inventate qualcuno che me lo vuole mettere nel culo.”
Torna sul padre, sulla prepotenza di un uomo che si arroga il diritto di distruggere un’esistenza solo perché l’ha creata, perché ne è padrone.
La madre ricorda il dolore e i lamenti ingoiati in nome della vergogna che suscita una morte suicida, una morte che non merita lamenti. L’ambiente che circonda le vicende è violenza, è sopraffazione, un vento forte e continuo che travolge tutto, determina le azioni dei singoli.
Mani imbrattate nella melma dell’equivoco, labile confine tra bene e male: i buoni sono sempre pronti ad uccidere.
“Io piango i figli di tutti perché non ho potuto piangere mia figlia. I morti di suicidio non si piangono. Si atterrano silenziosi. La gente manco se ne deve accorgere. Quando è morta mi sono stata zitta. Ho inghiottito tutte le urla delle madri che abbracciano figli morti, ho divorato tutta la pietà della madonna vergine. Ma io sono tosta. Mi lamento tutti i giorni, e vomito quello che ho ingoiato. Mi lamento per chi muore di malattia, di fatica, di speranza, ammazzati, morti uccisi, vecchi, giovani, piccirilli. Chi si suicida non è cristiano, non merita lacrime. Non merita lamenti.”
Galleria Fotografica
Recensioni
“Come può un soggetto apparentemente semplice, forse addirittura banale, diventare l’occasione per mettere in scena una piccolo gioiello teatrale?
[…] Siamo in una Napoli in cui condizioni disagiate e scarso livello culturale sono le cause principali di un degrado non solo materiale ma anche, e soprattutto, dell’animo. Tutto è scuro sulla scena, così come scuri sono i volti e i cuori dei protagonisti: sono tre, un padre, una madre e la loro unica figlia. Rapidi barlumi di speranza, di voglia di migliorare, affiorano timidamente nel solo sguardo di quest’ultima, la giovane figlia di Pasqualina; scompaiono presto, inghiottiti dalla vita vissuta, che di speranzoso ha ben poco. Molte delle emozioni che si percepiscono durante lo spettacolo sono affidate allo sguardo di Annamaria Palomba, straordinaria interprete, ottimamente calata nel ruolo di Pasqualina. La donna si presenta sulla scena narrando i fatti della sua misera vita, con voce ferma, quasi monotona; i movimenti calmi nascondono, però, una rabbia incontenibile, giustificabile solo alla luce della comprensione del suo vissuto. L’interpretazione del ruolo di Pasqualina è l’occasione per l’attrice di mostrare al meglio una espressività che traspare con rara naturalezza già dallo sguardo, dalla mimica del volto. […] La regia ha contribuito alla ottima riuscita di questo lavoro con la creazione di uno spazio scenico essenziale, in grado di fare da sfondo alla lotta ideale tra calma e rabbia, tra umanità e ignominia. Il lavoro è bello proprio per la sua essenzialità, per la sua semplicità. È un viaggio nell’animo umano e dell’animo umano mette in luce tutte le ombre più recondite.”
Fabio Dell’Aversana per teatro.org
“Sono tre figure distinte più che diverse una dall’altra: la madre Pasqualina (Annamaria Palomba), statuaria ma non ieratica, impietosa e compassionevole allo stesso tempo; la figlia Carmela (Ilaria Cecere) di una bellezza mutilata, senza più redenzione; e in mezzo, quasi come un cuneo, il padre (Fedele Conanico), supponente e spietato nell’umiliare le “sue” donne, ma intimamente debole. Tutti loro si affannano nel microscopico universo racchiuso sulla scena, e che sembra vivere di iterazioni: gli schiocchi della frusta del padre, la violenza delle assi e dei tavoli ribaltati, le parole dure come pietre della madre, la simulazione degli atti sessuali subiti dalla figlia. Una coazione al male che riesce in parte a sbriciolare la barriera della quarta parete, imponendo agli spettatori una più sofferta, viscerale partecipazione.”
Clemente Tecchia per Caserta Musica e Arte
“Tra silenzi, grida, e scene di concerto le tre anime dannate vagano escludendosi e assorbendosi, trafitte da un sostrato comune di rapporti di dipendenza; si finisce per crepare a terra sotto i colpi di una mano o del sesso, si finisce a sbattersi sotto un velo che avvilisce i profili trasformando il volto di una Maddalena in Vergine affranta. Per chi osserva seduto in panca trattenere l’emozione, al pari dell’indignazione, è impresa difficile, così come complesso risulta infrangere il vettore dell’attenzione. La scenografia crea un contesto intimo in senso trasversale, proprio dove l’intimità non ha più pareti di tutela. Come struttura mobile, una casa-cabina squassa il silenzio con i suoi scoppi di tavole di legno e diviene zona d’esclusione di sguardi, una volta chiusa, definitivamente, con innumerevoli mandate in fine di dramma.”
Christian Iorio per Arteatro
C’è polvere, c’è molta polvere. Addosso, dappertutto, sui vestiti, sui capelli, nelle ossa e fino dentro l’anima. Quando i tre protagonisti, che aspettano già in scena, prendono vita, devono anzitutto scrollarsi di dosso, dagli abiti alle teste, il grigio di una polvere che invade e pervade, fa quasi vedere l’inevitabilità, della sporcizia di un interno di famiglia degradato fin sotto ogni livello di guardia. La madre ripete una ritualistica anti-malocchio, compreso il sale, dedicandola alla figlia. Il padre, contrabbandiere di basso livello, è violento come solo quelli senza coraggio sanno esserlo, quelli che arrivano a segregare la figlia in una vita di prostituzione sotto il suo controllo, usurpandole la vita. Lo fa perché ritiene ovvio scaricare su di loro l’eredità personale, familiare e sociale di ciò che ha passato a sua volta, e così parte la spirale infinita… mangia avidamente con gesti che ne simboleggiano l’abbrutimento, mentre la madre, Pascalina di Gesù coniugata Colantuono, fa “due attività: una piena di cazzimma, l’altra caritatevole verso di sè e verso l’anima di chi la chiama”, ossia vende eroina nel vicolo, e contemporaneamente piange i morti del suo quartiere, accompagnandoli nell’aldilà. Dopo averli uccisi.
C’è anche un sesso dilagante e sotteso, nelle menti distorte di questo ambiente, che serve solo a chiedersi in quanti modi possa diventare il terminale estremo di una infinita serie di sublimazioni di potere, di violenza, di ignoranza, di sradicamento dalla normalità, senza eros e speranza ma intriso di segnali di afflizione. È un mondo cui Carmela, la figlia che si illudeva di potersi fare una famiglia, non voleva appartenere, un mondo in cui ci si prostituisce quasi per natura, anzi per contro-natura, perchè è natura contro sé stessi, contro gli altri, contro la natura stessa, ma si accorge presto che non può sfuggirgli (“Quando ero piccerella ero la prima della classe, ora mi sono dovuto scordare tutte le tabelline, come si coniugano i verbi e come si fa un un’analisi grammaticale. […] Io conosco cose concrete, dove le regole, se esistono, le ha inventate qualcuno che me lo vuole mettere nel culo”). Durante uno dei suoi passatempi preferiti, ovvero fare il guardone, il padre scopre la figlia che si intrattiene in un’automobile con il suo ragazzo, la sua reazione è feroce, urla, spari, sangue… uccide il ragazzo, e da bravo Padrone trascina la figlia nella prostituzione: la punizione inflitta da chi non ha il controllo su ciò che non può controllare. È in questo momento che la giovane compagnia di autori ed attori di Teatro di Legno concede un momento di altissimo pathos e coinvolgimento, con un gesto che racchiude non solo simbolicamente, ma umanamente e con la più elevata riuscita emotiva e realistica, un mondo in cui c’è talmente poco spazio per un sentimento di umanità, da doverlo guardare attraverso i particolari: la madre veste lentamente la figlia, intimamente violentata, con amore e con dolore. Con un movimento che accoglie la figlia ormai persa e dispersa, ma sempre carne sua, e che inconsapevolmente introduce e dà un senso ad un finale funesto quanto catartico.
Luigi Imperato e Silvana Pirone hanno saputo dar vita ad una drammaturgia che avrebbe potuto facilmente sostituire l’attenzione con l’effetto del pugno dello stomaco insito nell’argomento, e che invece contiene, in questa versione di Non Merita Lamenti (la precedente, di durata ridotta, fu finalista al Premio Scenario 2009), la giusta dose di crudezza e di intimità che non respinge lo spettatore, ma anzi ne attrae l’empatia. Fedele Canonico, Ilaria Cecere e Annamaria Palomba si muovono con la giusta grevità dei loro personaggi, ma anche con oscillazioni, movenze che in un sottofondo di fisarmonica sempre più ritmata si fanno fisse o violente, ma sempre piene di senso.
Con una speciale menzione per Annamaria Palomba, una madre che incisivamente esplora ogni anfratto della melma in cui deve vivere, e ne esce con una testa alta pur se sporcata infine anche dalle sue scelte; quando un poliziotto-cliente della figlia dimentica la pistola, Carmela non esita molto, e la usa contro sé stessa. Si uccide. Non c’è più mediazione. La madre compie la vendetta mai osata, assolda due killer che uccideranno il padre, ed assume la sua definitiva, genetica forma di un pozzo senza fine che tutto può contenere e chiudere dentro, dipingendo i chiaroscuri dell’idea che nessun limite può esserci per certe vite. Anche quando non viene concesso il giusto omaggio della società alla figlia suicida, perché non è morte cristiana e pertanto appunto non merita lamenti: “Ma io so’ tosta, e piango tutto quello che ho ingoiato”.
La scenografia di Monica Costigliola, nel suggestivo finale, rinchiude, inserra tutto in una cella di legno, una bara onnicomprensiva in cui le mandate della serratura sono l’ultimo rumore, inquietante ma forse perfino a suo modo confortante, come può essere una cerniera sul lutto.
Riccardo Limongi