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La nave dei folli

Cast

  • Regia e Drammaturgia, Costumi e Scene: Luigi Imperato e Silvana Pirone
  • Disegno Luci: Paco Summonte

Interpreti

  • Annamaria Palomba
  • Silvana Pirone
  • Domenico Santo
  • Salvatore Veneruso

Sinossi

Personaggi grotteschi segnati dalla follia. Sono vittime dell’emarginazione, prigionieri del viaggio, immobili sulla soglia dell’esilio. Vengono condotti al loro destino con l’inganno: imbarcati con l’illusione di un pellegrinaggio salvifico.

NOTE DI REGIA

La nave dei folli accoglie corpi-relitti, storie di oltraggi, di umanità ripudiata. Anime sopravvissute a se stesse, personaggi senza più nome in un ambiente senza più nome: brandelli di esistenze appartenute forse ad alcuni ma ormai rifiutate, come si rifiutano oggetti vecchi in cui non ci si riconosce più e che denunciano una parte di sé. Quella parte che è comodo non mostrare e soprattutto non guardare.
I nostri folli aspirano ad aggirarsi nelle nostre menti e sotto la nostra pelle, godono a metterci di fronte ad un dubbio, uno specchio distorto che ci fa domande e che non sa dare risposte. Loro stessi vivono nel continuo dubbio della realtà che li esula a volte esitanti nel credere a sé stessi: si sorprendono a fingere, a recitare ruoli o a sentirsene doppi involontari. Sono soli eppure uniti dalla comune solitudine, si tengono per mano, si abbracciano in un amplesso di male comune, ma si fanno anche la guerra, si odiano, si amano e sperano. Sono uomini.
La nostra attenzione non è concentrata sulla follia come stato psichico, ma sulla ritualizzazione scenica dell’esilio che si trasforma lentamente nel rito del ricordo e della disperazione.

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Recensioni

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Non merita lamenti

Cast

  • Regia, Drammaturgia, Costumi e Scene: Luigi Imperato e Silvana Pirone
  • Scenografie: Monica Castigliola
  • Disegno Luci: Paco Summonte

Interpreti

  • Vincenza: Chiara Amalberti
  • Eloisa: Chiara Giribaldi
  • Marga: Giorgia Brusco
  • Rina: Federica Spanò

Sinossi

Pascalina Di Gesù coniugata Colantuono. Faccio due attività.
Una piena di cazzimma, l’altra caritatevole verso me e verso l’anima che mi chiama.”

Due donne si raccontano. Una figlia scrive una lunga lettera per annunciare la propria morte  suicida. Torna sulla sua storia, una storia di vita repressa.
Cara mammà, quando ero piccirella ero la prima della classe, ma mi sono dovuto scordare tutto. Non me lo ricordo più come si scrive, tengo una parlata sporca, che sa di sfaccimma. Parlo senza grammatica, come la mia vita. La lingua è fatta di regole, è un’invenzione. Io conosco cose concrete, dove le regole se esistono sono poche e le ha inventate qualcuno che me lo vuole mettere nel culo.

Torna sul padre, sulla prepotenza di un uomo che si arroga il diritto di distruggere un’esistenza solo perché l’ha creata, perché ne è padrone.

La madre ricorda il dolore e i lamenti ingoiati in nome della vergogna che suscita una morte suicida, una morte che non merita lamenti. L’ambiente che circonda le vicende è violenza, è sopraffazione, un vento forte e continuo che travolge tutto, determina le azioni dei singoli.
Mani imbrattate nella melma dell’equivoco, labile confine tra bene e male: i buoni sono sempre pronti ad uccidere.

Io piango i figli di tutti perché non ho potuto piangere mia figlia. I morti di suicidio non si piangono. Si atterrano silenziosi. La gente manco se ne deve accorgere.  Quando è morta mi sono stata zitta. Ho inghiottito tutte le urla delle madri che abbracciano figli morti, ho divorato tutta la pietà della madonna vergine. Ma io sono tosta. Mi lamento tutti i giorni, e vomito  quello che ho ingoiato. Mi lamento per chi muore di malattia, di fatica, di speranza, ammazzati, morti uccisi, vecchi, giovani, piccirilli. Chi si suicida non è cristiano, non merita lacrime. Non merita lamenti.”

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Recensioni

“Come può un soggetto apparentemente semplice, forse addirittura banale, diventare l’occasione per mettere in scena una piccolo gioiello teatrale?
[…] Siamo in una Napoli in cui condizioni disagiate e scarso livello culturale sono le cause principali di un degrado non solo materiale ma anche, e soprattutto, dell’animo. Tutto è scuro sulla scena, così come scuri sono i volti e i cuori dei protagonisti: sono tre, un padre, una madre e la loro unica figlia. Rapidi barlumi di speranza, di voglia di migliorare, affiorano timidamente nel solo sguardo di quest’ultima, la giovane figlia di Pasqualina; scompaiono presto, inghiottiti dalla vita vissuta, che di speranzoso ha ben poco. Molte delle emozioni che si percepiscono durante lo spettacolo sono affidate allo sguardo di Annamaria Palomba, straordinaria interprete, ottimamente calata nel ruolo di Pasqualina. La donna si presenta sulla scena narrando i fatti della sua misera vita, con voce ferma, quasi monotona; i movimenti calmi nascondono, però, una rabbia incontenibile, giustificabile solo alla luce della comprensione del suo vissuto. L’interpretazione del ruolo di Pasqualina è l’occasione per l’attrice di mostrare al meglio una espressività che traspare con rara naturalezza già dallo sguardo, dalla mimica del volto. […] La regia ha contribuito alla ottima riuscita di questo lavoro con la creazione di uno spazio scenico essenziale, in grado di fare da sfondo alla lotta ideale tra calma e rabbia, tra umanità e ignominia. Il lavoro è bello proprio per la sua essenzialità, per la sua semplicità. È un viaggio nell’animo umano e dell’animo umano mette in luce tutte le ombre più recondite.”

Fabio Dell’Aversana per teatro.org

“Sono tre figure distinte più che diverse una dall’altra: la madre Pasqualina (Annamaria Palomba), statuaria ma non ieratica, impietosa e compassionevole allo stesso tempo; la figlia Carmela (Ilaria Cecere) di una bellezza mutilata, senza più redenzione; e in mezzo, quasi come un cuneo, il padre (Fedele Conanico), supponente e spietato nell’umiliare le “sue” donne, ma intimamente debole. Tutti loro si affannano nel microscopico universo racchiuso sulla scena, e che sembra vivere di iterazioni: gli schiocchi della frusta del padre, la violenza delle assi e dei tavoli ribaltati, le parole dure come pietre della madre, la simulazione degli atti sessuali subiti dalla figlia. Una coazione al male che riesce in parte a sbriciolare la barriera della quarta parete, imponendo agli spettatori una più sofferta, viscerale partecipazione.”

Clemente Tecchia per Caserta Musica e Arte

“Tra silenzi, grida, e scene di concerto le tre anime dannate vagano escludendosi e assorbendosi, trafitte da un sostrato comune di rapporti di dipendenza; si finisce per crepare a terra sotto i colpi di una mano o del sesso, si finisce a sbattersi sotto un velo che avvilisce i profili trasformando il volto di una Maddalena in Vergine affranta. Per chi osserva seduto in panca trattenere l’emozione, al pari dell’indignazione, è impresa difficile, così come complesso risulta infrangere il vettore dell’attenzione. La scenografia crea un contesto intimo in senso trasversale, proprio dove l’intimità non ha più pareti di tutela. Come struttura mobile, una casa-cabina squassa il silenzio con i suoi scoppi di tavole di legno e diviene zona d’esclusione di sguardi, una volta chiusa, definitivamente, con innumerevoli mandate in fine di dramma.”

Christian Iorio per Arteatro

C’è polvere, c’è molta polvere. Addosso, dappertutto, sui vestiti, sui capelli, nelle ossa e fino dentro l’anima. Quando i tre protagonisti, che aspettano già in scena, prendono vita, devono anzitutto scrollarsi di dosso, dagli abiti alle teste, il grigio di una polvere che invade e pervade, fa quasi vedere l’inevitabilità, della sporcizia di un interno di famiglia degradato fin sotto ogni livello di guardia. La madre ripete una ritualistica anti-malocchio, compreso il sale, dedicandola alla figlia. Il padre, contrabbandiere di basso livello, è violento come solo quelli senza coraggio sanno esserlo, quelli che arrivano a segregare la figlia in una vita di prostituzione sotto il suo controllo, usurpandole la vita. Lo fa perché ritiene ovvio scaricare su di loro l’eredità personale, familiare e sociale di ciò che ha passato a sua volta, e così parte la spirale infinita… mangia avidamente con gesti che ne simboleggiano l’abbrutimento, mentre la madre, Pascalina di Gesù coniugata Colantuono, fa “due attività: una piena di cazzimma, l’altra caritatevole verso di sè e verso l’anima di chi la chiama”, ossia vende eroina nel vicolo, e contemporaneamente piange i morti del suo quartiere, accompagnandoli nell’aldilà. Dopo averli uccisi.
C’è anche un sesso dilagante e sotteso, nelle menti distorte di questo ambiente, che serve solo a chiedersi in quanti modi possa diventare il terminale estremo di una infinita serie di sublimazioni di potere, di violenza, di ignoranza, di sradicamento dalla normalità, senza eros e speranza ma intriso di segnali di afflizione. È un mondo cui Carmela, la figlia che si illudeva di potersi fare una famiglia, non voleva appartenere, un mondo in cui ci si prostituisce quasi per natura, anzi per contro-natura, perchè è natura contro sé stessi, contro gli altri, contro la natura stessa, ma si accorge presto che non può sfuggirgli (“Quando ero piccerella ero la prima della classe, ora mi sono dovuto scordare tutte le tabelline, come si coniugano i verbi e come si fa un un’analisi grammaticale. […] Io conosco cose concrete, dove le regole, se esistono, le ha inventate qualcuno che me lo vuole mettere nel culo”). Durante uno dei suoi passatempi preferiti, ovvero fare il guardone, il padre scopre la figlia che si intrattiene in un’automobile con il suo ragazzo, la sua reazione è feroce, urla, spari, sangue… uccide il ragazzo, e da bravo Padrone trascina la figlia nella prostituzione: la punizione inflitta da chi non ha il controllo su ciò che non può controllare. È in questo momento che la giovane compagnia di autori ed attori di Teatro di Legno concede un momento di altissimo pathos e coinvolgimento, con un gesto che racchiude non solo simbolicamente, ma umanamente e con la più elevata riuscita emotiva e realistica, un mondo in cui c’è talmente poco spazio per un sentimento di umanità, da doverlo guardare attraverso i particolari: la madre veste lentamente la figlia, intimamente violentata, con amore e con dolore. Con un movimento che accoglie la figlia ormai persa e dispersa, ma sempre carne sua, e che inconsapevolmente introduce e dà un senso ad un finale funesto quanto catartico.
Luigi Imperato e Silvana Pirone hanno saputo dar vita ad una drammaturgia che avrebbe potuto facilmente sostituire l’attenzione con l’effetto del pugno dello stomaco insito nell’argomento, e che invece contiene, in questa versione di Non Merita Lamenti (la precedente, di durata ridotta, fu finalista al Premio Scenario 2009), la giusta dose di crudezza e di intimità che non respinge lo spettatore, ma anzi ne attrae l’empatia. Fedele Canonico, Ilaria Cecere e Annamaria Palomba si muovono con la giusta grevità dei loro personaggi, ma anche con oscillazioni, movenze che in un sottofondo di fisarmonica sempre più ritmata si fanno fisse o violente, ma sempre piene di senso.
Con una speciale menzione per Annamaria Palomba, una madre che incisivamente esplora ogni anfratto della melma in cui deve vivere, e ne esce con una testa alta pur se sporcata infine anche dalle sue scelte; quando un poliziotto-cliente della figlia dimentica la pistola, Carmela non esita molto, e la usa contro sé stessa. Si uccide. Non c’è più mediazione. La madre compie la vendetta mai osata, assolda due killer che uccideranno il padre, ed assume la sua definitiva, genetica forma di un pozzo senza fine che tutto può contenere e chiudere dentro, dipingendo i chiaroscuri dell’idea che nessun limite può esserci per certe vite. Anche quando non viene concesso il giusto omaggio della società alla figlia suicida, perché non è morte cristiana e pertanto appunto non merita lamenti: “Ma io so’ tosta, e piango tutto quello che ho ingoiato”.
La scenografia di Monica Costigliola, nel suggestivo finale, rinchiude, inserra tutto in una cella di legno, una bara onnicomprensiva in cui le mandate della serratura sono l’ultimo rumore, inquietante ma forse perfino a suo modo confortante, come può essere una cerniera sul lutto.

Riccardo Limongi

La Parola “Madre”

Cast

  • Autori e Regia: Luigi Imperato e Silvana Pirone
  • Costumi: Francesca Balzano
  • Disegno Luci: Paco Summonte
  • Attrezzeria: Monica Cagliola e Stefano D’Agostino

Interpreti

  • Fedele Canonico
  • Domenico Santo
  • Salvatore Venuso 

Sinossi

Libero tradimento da “Emma B. vedova Giocasta” di Alberto Savinio

Una notte dopo quindici anni di assenza, Emma B. incontrerà suo figlio. E’ una notte di attesa, ma anche di festa. Savinio immagina la sua protagonista sola in scena, in un monologo allucinato; noi le affianchiamo  due personaggi  che insieme a lei danno vita ad  una danza dell’attesa e nello stesso tempo si fanno narratori-testimoni di un segreto profondo e impronunciabile: l’incesto compiuto dalla protagonista con suo figlio per sottrarlo ad una ispezione nazista. La condanna dell’incesto resta sulla soglia dell’ambiguità: Emma infatti è  madre, ma sembra riconoscere  nel figlio il suo uomo, o ancora meglio il suo complemento, l’essere umano da lei generato e che può renderle il  sesso mai posseduto, e la libertà legata all’essere maschio.
Delusa da una prima figlia perché femmina e condannata a passare da un padrone all’altro (padre, madre, marito), sembra pronta a voler portare a se definitivamente quel figlio, il quale ha per troppo tempo cercato in altre donne la felicità e fatto fatica a “pronunciare la parola madre fuori da certi significati”.

 Note di regia
Il nostro allestimento esplora questo mondo materno attraverso tre uomini che recitano donne. La negazione del ruolo della femminilità viene pronunciato da voci maschili che tentano di invertire il proprio sesso.
Emma sembra fare i conti con una realtà desolante che non accoglie le sue urla soffocate in sospiri, e cerca di sfuggirne attraverso quello che ritiene il suo atto più potente: la messa al mondo di un uomo, maschio. La realtà di questo uomo e di quello che per lei ha significato e significa (compreso il peccato come affermazione) sembra in ogni momento labile e prossima più ad un fantasma che ad una persona. Il suo mondo pare una messa in scena rituale dell’attesa materna al fine di evadere da una mortifera solitudine.

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Premi & Riconoscimenti

  • 2007: premio Nuove sensibilità, menzione e borsa di produzione per lo spettacolo La parola “madre” (produzione Vesuvioteatro) assegnato da Nuovo Teatro Nuovo di Napoli e Teatro Pubblico Campano in collaborazione con Teatro dei Filodrammatici di Milano, Amat, Teatro Stabile delle Marche, Teatro Pubblico Pugliese, Festival internazionale Castel dei mondi, Teatro di Sardegna, e con il sostegno dell’ETI (Ente teatrale Italiano).

 Tradire è forse nella tradizione, ma il tradimento non è di tutto riposo.
Ho dovuto compiere un grande sforzo per tradire i miei amici: in fondo c’era la ricompensa
Jean Genet

Prima della PRIMA di Antonella Russoniello

IL DIBATTITO dopo lo spettacolo

Recensioni

Inconscio di una madre messo a nudo in un interno: denudato e narrato sfruttando al meglio le molteplici possibilità offerte dalla mimesi teatrale. Questo è La parola ‘Madre’, libero dichiarato tradimento dall’atto unico Emma B. vedova Giocasta di Alberto Savinio, messo in scena con felice congegno dalla compagnia “Teatro di Legno”.

Brucia, nel fuoco che riverbera in un bacile, una lettera che preannuncia un ritorno; a torso nudo, nella penombra, tre persone attorno ad un tavolo, danno cominciamento alla mimesi rivestendosi. E travestendosi: sono uomini in vesti di donna. Anzi in veste – unica – di donna, visto che identica è la mise, medesimo è il personaggio che incarnano: corpo di madre fasciato d’amaranto in un cupo ambiente che pare muffito da un tempo defluito senza essere vissuto. Come fluisce il tempo vano di un’attesa che scolora in solitudine. Emma è anima inquieta di donna dalle cui membra è defluito il colore, ad ingrigirla è psicosi materna ambigua e morbosa, che la fa nevrotica nel dire e nel gestire e che la proietta verso un figlio vagheggiato in un possesso che travalica l’essenza della “parola ‘Madre’”, oltrepassando la sdrucciolevole linea di confine di un Edipo inconsulto.
L’attesa e la ripetizione, l’uno e il molteplice: si attende il ritorno a casa di un figlio, Millo, che da parte sua ha sempre cercato il riprodursi e il replicarsi della figura materna in donne più grandi. Ad attenderlo una madre replicata in triplice copia, giacché un corpo solo non basta a raccontare tormenti e conflitti che s’agitano in ventre materno. Moltiplicati sono i quadretti, quasi icone votive, che la donna replicata in tre appende nella stanza: rappresentano tutte il figlio. La triplicazione scenica, per giunta en travesti, di Emma ne connota la figura moltiplicandone le nevrosi, dettagliandone l’indole; un’indole che non può esser repressa e accantonata in un armadio come un abito vecchio e sdrucito, ma che anzi vuol venir fuori e raccontarsi. La parola ‘Madre’ è appunto questo: esibizione (teatrale) di un inconscio che si palesa e si dà, sfaccettandosi in un trittico di cui ogni singola parte riconduce all’unità. Ed è unità ambigua, che rivela solo parzialmente, per ammicchi ed allusioni, il torbido che sottende ad un legame madre-figlio irrisolto: un ricordo che affiora sgranato dal tempo della guerra, un atto di devozione materna – per salvar la vita al figlio sacrificando il proprio pudore – narrato come prodromo di un presumibile incesto, appena evocato, soltanto sfumato, forse vissuto e consumato, senz’altro introiettato come (in)conscia proiezione.
La mimesi del teatro interviene – ottimamente orchestrata da una regia intelligente – giocando sulle immagini del travestimento e dell’evocazione, alleggerendo col brio efficace e mai eccessivo degli attori in scena, il rappresentarsi di un tema di per sé scabroso e che invece si vena di ironia quando non addirittura di comicità farsesca, segnatamente nella scena in cui le tre madri (che poi sono una) giocano a carte creando un effetto nonsense particolarmente ridanciano.
Temi musicali di raffinata suggestione contrappuntano il fluire scenico: si va da Beethoven a René Aubry, passando per Rossini e per il tema musicale dello storico Pinocchio televisivo (d’altronde, è di scena “Teatro di legno”!), firmato Comencini, musicato da Fiorenzo Carpi.
La parola ‘Madre’ è messinscena che contempera e dimidia con acume dramma e ironia, gioca molto bene con gli strumenti a propria disposizione, padroneggiandoli senza abusarne.
Mimesi teatrale, commedia scabra dal tono leggero (ma non fatuo) che racconta dell’attesa e del molteplice.
L’applauso convinto, onesta ricompensa.

A cura di: Michele Di Donato
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